mercoledì 19 settembre 2012

Amore fraterno

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Sono dell'idea che essere figli unici – ma qualcuno mi smentirà – non è così bello. Un fratello, una sorella, a volte tutte due, sono come dei compagni di viaggio per tutto il corso della vita. Sono le uniche persone con cui si hanno intimi ricordi, alleati nella dura battaglia quotidiana con i genitori, sono un punto di riferimento. Anche per questo ho voluto fortemente la mia seconda figlia. Ma quando si è bambini, non sempre è così. Io ho un fratello più grande, che come tutti i figli maggiori ha cercato per anni di difendere la sua primogenitura – si sa, i maschi sono un po' cavernicoli su certi aspetti - facendomi dispetti e odiandomi anche un po'. Dai racconti famigliari, il primo giorno in cui appena nata sono tornata a casa, il mio amorevole fratellino – un gagno di quattro anni – mi ha messo una coperta sulla faccia e tutto tronfio è andato ad annunciare ai miei “La sorellina è morta”. Provate ad immaginare lo scatto da centometrista di mia madre verso la culla, roba che Usain Bolt sarebbe stato umiliato. Un giorno giocavamo sul balcone della cucina, mi indicò un signore del palazzo di fronte. Un tizio effettivamente brutto, vestito tutto l'anno con pantaloncini besulìn (beige) e orridi calzini al polpaccio color caghetta, che stava tutto il giorno a trafficare in balcone e a spazzolare scarpe. Beh, mio fratello mi disse: “Lo vedi quel signore? Ecco, lui ha ucciso tua madre”. Ovviamente il “tua” sottolineato. Dall'alto dei miei tre anni, con calma serafica gli dico: “Ma se mamma è in cucina!”. Mi rispose da autentico teppista: “Quella non è tua madre, la tua è morta e le foto della tua nascita sono un fotomontaggio”. Ho pianto per due giorni, quel vicino aveva sul serio la faccia da serial killer. A otto anni scrisse la letterina a Babbo Natale – Gesù Bambino non gli sembrava adatto per la richiesta – con l'unico desiderio di ricevere un sacco nero, grosso, quelli da spazzatura di condomini, per mettermi dentro e buttarmi. Che amore di bambino.
Una sera d'estate, in montagna, i nostri genitori uscirono per andare a messa, noi rimanemmo a casa. Il cielo si scurì e venne giù un diluvio talmente forte che si potevano vedere le marmotte cercare disperatamente un Noè qualsiasi per salire sull'arca. Quando si è bambini, normalmente non si amano molto i tuoni, i fulmini, quel cielo plumbeo da apocalisse, e mio fratello pensò bene di mettere il carico da undici prospettandomi l'arrivo dei nostri genitori zuppi di acqua con conseguente febbre da cavallo, broncopolmonite e poi dipartita. Ecchecosè?! Non mi sono calmata finché non furono tornati a casa e li vidi sorridenti, pacifici e pure asciutti perché avevano aspettato che spiovesse in un bar, facendosi un aperitivo. E poi dicono dei traumi infantili. Quella sera mia madre preparò una minestra ristoratrice con patate e carote, che mi calmò e mi fece sentire protetta. Adoro questo piatto e lo stesso gusto l'ho trasformato in una vellutata, calda e avvolgente, perfetta se accompagnata da crostini croccanti o anche solo con un po' di parmigiano e una macinata di pepe.
Per dovere di cronaca: mio fratello è stato un fantastico compagno di giochi e quelli descritti sono una minoranza rispetto ai tanti splendidi ricordi d'infanzia legati a lui.


A casa mia...una vellutata come coccola.

Vellutata di patate e carote

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