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Sono
dell'idea che essere figli unici – ma qualcuno mi smentirà – non
è così bello. Un fratello, una sorella, a volte tutte due, sono
come dei compagni di viaggio per tutto il corso della vita. Sono le
uniche persone con cui si hanno intimi ricordi, alleati nella dura
battaglia quotidiana con i genitori, sono un punto di riferimento.
Anche per questo ho voluto fortemente la mia seconda figlia. Ma
quando si è bambini, non sempre è così. Io ho un fratello più
grande, che come tutti i figli maggiori ha cercato per anni di
difendere la sua primogenitura – si sa, i maschi sono un po'
cavernicoli su certi aspetti - facendomi dispetti e odiandomi anche
un po'. Dai racconti famigliari, il primo giorno in cui appena nata
sono tornata a casa, il mio amorevole fratellino – un gagno di
quattro anni – mi ha messo una coperta sulla faccia e tutto tronfio
è andato ad annunciare ai miei “La sorellina è morta”. Provate
ad immaginare lo scatto da centometrista di mia madre verso la culla,
roba che Usain Bolt sarebbe stato umiliato. Un giorno giocavamo sul
balcone della cucina, mi indicò un signore del palazzo di fronte. Un
tizio effettivamente brutto, vestito tutto l'anno con pantaloncini
besulìn (beige) e orridi calzini al polpaccio color caghetta, che
stava tutto il giorno a trafficare in balcone e a spazzolare scarpe.
Beh, mio fratello mi disse: “Lo vedi quel signore? Ecco, lui ha
ucciso tua madre”. Ovviamente il “tua” sottolineato. Dall'alto
dei miei tre anni, con calma serafica gli dico: “Ma se mamma è in
cucina!”. Mi rispose da autentico teppista: “Quella non è tua
madre, la tua è morta e le foto della tua nascita sono un
fotomontaggio”. Ho pianto per due giorni, quel vicino aveva sul
serio la faccia da serial killer. A otto anni scrisse la letterina a
Babbo Natale – Gesù Bambino non gli sembrava adatto per la
richiesta – con l'unico desiderio di ricevere un sacco nero,
grosso, quelli da spazzatura di condomini, per mettermi dentro e
buttarmi. Che amore di bambino.
Una
sera d'estate, in montagna, i nostri genitori uscirono per andare a
messa, noi rimanemmo a casa. Il cielo si scurì e venne giù un
diluvio talmente forte che si potevano vedere le marmotte cercare
disperatamente un Noè qualsiasi per salire sull'arca. Quando si è
bambini, normalmente non si amano molto i tuoni, i fulmini, quel
cielo plumbeo da apocalisse, e mio fratello pensò bene di mettere il
carico da undici prospettandomi l'arrivo dei nostri genitori zuppi di
acqua con conseguente febbre da cavallo, broncopolmonite e poi
dipartita. Ecchecosè?! Non mi sono calmata finché non furono
tornati a casa e li vidi sorridenti, pacifici e pure asciutti perché
avevano aspettato che spiovesse in un bar, facendosi un aperitivo. E
poi dicono dei traumi infantili. Quella sera mia madre preparò una
minestra ristoratrice con patate e carote, che mi calmò e mi fece
sentire protetta. Adoro questo piatto e lo stesso gusto l'ho
trasformato in una vellutata, calda e avvolgente, perfetta se
accompagnata da crostini croccanti o anche solo con un po' di
parmigiano e una macinata di pepe.
Per
dovere di cronaca: mio fratello è stato un fantastico compagno di
giochi e quelli descritti sono una minoranza rispetto ai tanti
splendidi ricordi d'infanzia legati a lui.
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